venerdì 14 gennaio 2011

A scopo terapeutico

“La mia vita fa schifo” disse, guardandosi allo specchio e spremendo un altro punto nero. Pulì la carta igienica imbrattata di sebo e tornò a quel rettangolo di riflessi. Si fissò nello sguardo, come se non si fosse mai visto prima. Gli occhi divennero rossi, gonfi. Con lentezza e impeto si bagnarono le ciglia inferiori. “Fa schifo” e riavvicinò la faccia per torturarsi di nuovo.


Bagnata e nera era la notte. E, mentre le labbra si serravano aspre sul filtro della sigaretta, da quel balcone lui non si sentiva parte del mondo. La malinconica sequenza di gocce sfilava rapida e composta davanti a quel volto segnato dalla sofferenza che, come barba, glielo ricopriva. Amaro, un'entità evanescente che t'imputridisce dal di dentro, quel fumo entrava e usciva come intrattenendo uno spasmodico rapporto sessuale con polmoni non più vergini. Chinò il capo e la cenere gli cadde sulle scarpe.


C'era solo con il corpo. L'anima naufraga arrancava per sopravvivere sommersa dalle paranoie. “E' giusto? Non lo è?”. Le risposte non gli appartenevo, era padrone solo di domande. Quanti giorni si era detto “domani sarà migliore”, quante volte aveva inghiottito, come una puttana, le urla, per non sembrare più pazzo? Lui c'era, ma non era. E, stanco di vivere in un mondo fatto solo di sé, cercava: un filo conduttore, una speranza, un segno. Ma c'erano solo silenzi, ovattati dalla voce del suo egoismo, e quelle poche parole non bastavano mai. Sbattere le ciglia, svegliarsi. Ma da cosa? Qual era il sogno? Di chi era? Come scrisse Poe: “Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo / non è che un sogno dentro un sogno?”.


Azione. Corse e corse e non arrivò mai, perché dove voleva andare era in nessuna direzione. Quando ormai il fiato si trasformò in fitte e il cuore iniziò a pulsargli nelle tempie si fermò, esausto, accasciandosi come un vestito sporco gettato nel suolo. Si lasciò guardare dalla gente senza che gliene importasse più nulla. Si raggomitolò come un riccio spaventato. La faccia rossa e il sudore gli accecavano i sensi. Pianse e pianse, e gridò. Si avvicinò una donna che gli chiese, in quella lingua straniera, se stava bene. Gridò. Prese un pugno di terra e glielo lanciò contro. Poi si accovacciò, quasi tentando d'alzarsi. La certezza che non avrebbe avuto senso lo spinse a tornare a terra. E si stese, supino, ridendo, ridendo forte. Sentì i commenti di quanti lo vedevano. Si asciugò il volto con la mano sporca di terra e ristette, fin quando ne ebbe voglia.


“A scopo terapeutico” rispose catatonico, guardandosi allo specchio. I capelli gocciolavano bagnandogli le spalle. “No, non sto meglio, però... mi sento migliore”. Sorrise. Strofinò la testa con l'asciugamano. Abbassò lo sguardo sul corpo nudo e cercò d'immaginarsi albero. Linfa al posto del sangue, radici le gambe, con tanti peli per assorbire meglio, il tronco, d'altronde già lo chiamiamo così. Alzò le braccia per farne rami e scosse la chioma - sì, anche lei si chiama già così - per muoverla al vento. Iniziò a stormire “Uuuuuuuh uuuuuuuuh”. Poi chiuse gli occhi e vide una coppia di uccellini grigi posarsi, cinguettare, muoversi a scatti. Sorrise.


Mangiò con appetito. Sentiva il sapore del cibo, la consistenza mentre lo demoliva tra i denti. Oggi si guardò allo specchio e si sentì un uomo nuovo. Pulì casa e ogni cosa che buttava via era un vecchio pensiero che non poteva riutilizzare; ogni oggetto che spolverava un lato di sé che aveva lasciato assopito; ogni pavimento lavato un nuovo battesimo che lo accoglieva assolvendolo d'ogni peccato. Uscì in balcone ed era una giornata felice, con tanto di sole brillante che poteva far evaporare le paludi ristagnanti del suo malessere. Era una giornata felice che invitava ad uscire, ma non uscì mai perché dove voleva andare era in nessuna direzione.

09/11/2010 (pubblicato nel giornale Il Nuovo Territorio)

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