martedì 18 gennaio 2011

Un altro pop-corn

“Non li capisco questi film” disse, sgranocchiando rumorosamente un pop-corn, con la bocca aperta. “Cosa non capisci?”. Chi le stava accanto la guardava di sottecchi mentre lei se ne stava con le gambe penzoloni e il resto del corpo spinto in avanti, verso la televisione. “Non capisco perché succede sempre così. Qualcuno vuole fare qualcosa di male, poi l'altro fa un gesto carino e quello di prima sembra che cambi idea e diventi buono. Nella vita reale non è così”. La bimba non cambiò espressione, rimase a fissare lo schermo e prese un'altra manciata di pop-corn. La luce colorata dell'emittente le si rifletteva sul viso, illuminandole le guance di un giallo falso. La “madre” restò ad osservarla socchiudendo le labbra “Beh, Camilla, solitamente quando qualcuno fa qualcosa di buono per te è normale che si risvegli, nel cuore di chi è oggetto di gentilezze, un sentimento di riconoscenza”. Camilla alzò le sopracciglia annuendo ripetutamente mentre faceva spallucce, e ingollò un altro pop-corn.


“Bene alzata” raggiante la “madre” si voltò verso l'esserino che entrava in cucina avvolto in una vestaglietta verde chiaro. Si sedette portando le mani sotto il mento e fissando la tavola imbandita per la colazione. “Guarda! Oh, dammi un minuto”, s'infilò un paio di guanti da forno bianchi e scomparse chinandosi. Nell'aria un profumo di dolce aleggiava solleticando i due nasi. “Ta-da!”, poggiò sul ripiano una teglia fumante “E' la prima volta che la faccio, quindi non posso assicurati nulla, però è quella che preferisci, vero? Non la riconosci dal profumo? Torta di carote!”. Camilla abbassò una mano e la posò sul legno scuro del tavolo. “Grazie”.


Nell'autobus i bambini schiamazzavano raggruppati in microinsiemi di acerba pubertà, toccandosi l'uno con l'altro, muovendosi senza posa. Le coetanee scimmiottavano ridacchiando qualche vocabolo più sguaiato per farsi notare. Camilla se ne stava poggiata con la testolina castana contro il vetro e vedeva le gocce della brina scendere disegnando strade tremolanti. Un ragazzetto disegnò un cazzo sull'appannatura e poi asciugò il dito sul naso del suo compagno, che gli tirò un pugno. Camilla li guardò con sufficienza e tornò al suo passatempo.


“Non vedi che bello il paesaggio, Camilla?”. “Sì”. Con pena la “madre” le poggiò una mano sulla spalla. “E' possibile che niente ti smuova, piccola?”. “Ho detto di sì”. Ritirando le dita e portandole con quelle della sua gemella sul volto, la donna, si fece rossa mentre gli occhi le si riempirono di pianto. Camilla voltò il capo fissandola. I singhiozzi sfuggirono da quel petto adulto, rigonfio di seni. I capelli corti si bagnarono di lacrime laddove la frangetta la incorniciava. “Non so più che fare con te, io ci provo, ci sto provando, ma tu... tu... sei senza sentimenti!”. Camilla guardò il paesaggio, e non ci trovò niente di bello.


“Ma tu... tu... sei senza sentimenti!”. Le parole le rimbombarono nella memoria, mentre pettinava i capelli della sua bambola. Essere senza sentimenti, che significava? Sentiva dentro di lei delle cose, sensazioni, pizzicori. Ma la maggior parte delle esperienze non le davano curiosità, né interesse, né gioia. Lei non se ne preoccupava, ma continuava a pensare ai film. Perché tutti erano felici o tristi e sembrava tutto lineare, tutto semplice, tutto con una spiegazione. Le dava quasi rabbia vedere quanto fosse semplice vivere in un film. A volte pensava che la vita in dvd sarebbe stata diversa. Ripensò a quelle lacrime tra le mani della donna che l'aveva “adottata”. Ripensò alle lacrime della sua vera madre quando, mordendosi le mani, fu trascinata via dagli infermieri. Ripensò a tutto questo, continuò a pettinare la bambola e iniziò a cantilenare.


“Tua figlia non mi accetta, non mi vuole! Io faccio di tutto per farla stare bene! La porto al cinema, cucino i suoi piatti preferiti, l'ho anche portata al lago ma niente, non le interessa niente, non sa voler bene, non ha cuore!”. La porta era chiusa ma dal salotto Camilla riusciva ad ascoltare. Il Coyote rincorreva Beep Beep sfrecciando sui pattini, legato ad un razzo. “Dalle tempo, Milena, lo sai quello che ha passato”. “E a me? A me non ci pensi? Tutto il giorno sola con quella piccola iena? Non ci sei mai! Se tu vedessi il modo in cui mi guarda!”. Il razzo esplose nel cielo in un fuoco d'artificio proiettante lampi di luce colorata e la scritta The End apparse in nuvolette di fumo. Camilla teneva gli occhi fissi davanti a sé, allungò la mano e, stringendola a pugno, prese un altro po' di pop-corn.  

11/11/2010

venerdì 14 gennaio 2011

A scopo terapeutico

“La mia vita fa schifo” disse, guardandosi allo specchio e spremendo un altro punto nero. Pulì la carta igienica imbrattata di sebo e tornò a quel rettangolo di riflessi. Si fissò nello sguardo, come se non si fosse mai visto prima. Gli occhi divennero rossi, gonfi. Con lentezza e impeto si bagnarono le ciglia inferiori. “Fa schifo” e riavvicinò la faccia per torturarsi di nuovo.


Bagnata e nera era la notte. E, mentre le labbra si serravano aspre sul filtro della sigaretta, da quel balcone lui non si sentiva parte del mondo. La malinconica sequenza di gocce sfilava rapida e composta davanti a quel volto segnato dalla sofferenza che, come barba, glielo ricopriva. Amaro, un'entità evanescente che t'imputridisce dal di dentro, quel fumo entrava e usciva come intrattenendo uno spasmodico rapporto sessuale con polmoni non più vergini. Chinò il capo e la cenere gli cadde sulle scarpe.


C'era solo con il corpo. L'anima naufraga arrancava per sopravvivere sommersa dalle paranoie. “E' giusto? Non lo è?”. Le risposte non gli appartenevo, era padrone solo di domande. Quanti giorni si era detto “domani sarà migliore”, quante volte aveva inghiottito, come una puttana, le urla, per non sembrare più pazzo? Lui c'era, ma non era. E, stanco di vivere in un mondo fatto solo di sé, cercava: un filo conduttore, una speranza, un segno. Ma c'erano solo silenzi, ovattati dalla voce del suo egoismo, e quelle poche parole non bastavano mai. Sbattere le ciglia, svegliarsi. Ma da cosa? Qual era il sogno? Di chi era? Come scrisse Poe: “Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo / non è che un sogno dentro un sogno?”.


Azione. Corse e corse e non arrivò mai, perché dove voleva andare era in nessuna direzione. Quando ormai il fiato si trasformò in fitte e il cuore iniziò a pulsargli nelle tempie si fermò, esausto, accasciandosi come un vestito sporco gettato nel suolo. Si lasciò guardare dalla gente senza che gliene importasse più nulla. Si raggomitolò come un riccio spaventato. La faccia rossa e il sudore gli accecavano i sensi. Pianse e pianse, e gridò. Si avvicinò una donna che gli chiese, in quella lingua straniera, se stava bene. Gridò. Prese un pugno di terra e glielo lanciò contro. Poi si accovacciò, quasi tentando d'alzarsi. La certezza che non avrebbe avuto senso lo spinse a tornare a terra. E si stese, supino, ridendo, ridendo forte. Sentì i commenti di quanti lo vedevano. Si asciugò il volto con la mano sporca di terra e ristette, fin quando ne ebbe voglia.


“A scopo terapeutico” rispose catatonico, guardandosi allo specchio. I capelli gocciolavano bagnandogli le spalle. “No, non sto meglio, però... mi sento migliore”. Sorrise. Strofinò la testa con l'asciugamano. Abbassò lo sguardo sul corpo nudo e cercò d'immaginarsi albero. Linfa al posto del sangue, radici le gambe, con tanti peli per assorbire meglio, il tronco, d'altronde già lo chiamiamo così. Alzò le braccia per farne rami e scosse la chioma - sì, anche lei si chiama già così - per muoverla al vento. Iniziò a stormire “Uuuuuuuh uuuuuuuuh”. Poi chiuse gli occhi e vide una coppia di uccellini grigi posarsi, cinguettare, muoversi a scatti. Sorrise.


Mangiò con appetito. Sentiva il sapore del cibo, la consistenza mentre lo demoliva tra i denti. Oggi si guardò allo specchio e si sentì un uomo nuovo. Pulì casa e ogni cosa che buttava via era un vecchio pensiero che non poteva riutilizzare; ogni oggetto che spolverava un lato di sé che aveva lasciato assopito; ogni pavimento lavato un nuovo battesimo che lo accoglieva assolvendolo d'ogni peccato. Uscì in balcone ed era una giornata felice, con tanto di sole brillante che poteva far evaporare le paludi ristagnanti del suo malessere. Era una giornata felice che invitava ad uscire, ma non uscì mai perché dove voleva andare era in nessuna direzione.

09/11/2010 (pubblicato nel giornale Il Nuovo Territorio)

Spaccare in due zolle di sogni

Spaccare in due
zolle di sogni.

Percuoterci fino ad assimilare il male
come parte integrante.

La verità è fatta di passato,
e ciò che passa
non è più vero.
Note come gocce di pioggia, arpeggio
col cielo
lasciando suonare le nubi.
Grigio asfalto
screziato di orme,
sporchi di fango
incediamo, in fondo assorti,
in mondi d’aria
paralleli, e quasi contigui.
Non so più se respirare valga a
qualcosa.
L’ombra tende a ricoprire,
ma nel buio essa non ha più
nome.
Invoco lampi e ghiaccio
su di uno specchio di spettri
riflessi.
Una lama fende l’acqua
ma non può tagliarla.

Eppure c’è qualcosa di buono anche in questo. Nelle mie convulsioni esangui, sommersa dalla voglia di alzare il capo colgo la fragilità che deve abbandonarmi. Lacrime come fuoco che mi fanno brillare gli occhi come nessun’altra cosa. Eppure ti credo. Diffidente per natura, sono un essere cauto e impulsivo. Non controllo ciò che non mi spiego ed è giusto così. E ancora mi fido. Non si può temere ciò che si agogna, o non lo avremo mai. Non ho paura. Le mie unghie sono forti e sanno affondare nella terra secca. Ogni esercizio di autocontrollo ha i suoi flebili effetti. Eppure sono essenza. Assenza d’essenza non può conciliarsi neppure con la volontà. Non smetterò di sentirmi viva per ottenere qualcosa. Preferisco rigirarmi nell’angoscia che lasciar scivolare ciò che bramo come sabbia tra le dita. Questa sabbia sembra sale, brucia sulla carne scorticata eppure rende gustoso ciò che ricopre. L’autolesionismo aiuta a prender coscienza delle emozioni. Scelgo di contorcermi tra dubbi e rompicapi pur cercando il sole dietro ogni nube. Non smetterò di credere nel domani. In fondo l’oggi senza il domani non avrebbe senso. Idee e convinzioni assimilate con fatica ora formano un essere condensato di lacrime e succhi gastrici. Voglio sangue, non acido a riempirmi il corpo! Arderò all’esterno e dentro me non avrò remore, non devo consumarmi lentamente ma divampare. Non più rabbia, solo amore. E così tanto che la rabbia si vomiterà nauseata.

Le parole
ricoprono uno spazio troppo breve per riempire
distanze tra pensieri di due teste. Con gorghi artistici potrei narrarti, con minuziosa cura, parziali anfratti del mio animo. Potrei cercare di confondermi tra le tue righe, magistrali forme del tuo tormento. Rimestare di nuovo carne e carta, corpo e inchiostro…forse non ricordi più quant’è bello visitare grotte calde e affannate. Non assaporo le tue labbra e contraggo i muscoli in attesa di un battito di ciglio. Son finiti i connubi bollenti e palpitanti che ci hanno stretto? Che hanno sorretto desideri lascivi e proibiti nei bagni piastrellati di turchese? Non credo a una parola di quello che scrivo. Ti voglio ancora come al prologo dei tuoi scritti rivolti al mio viso. La mente e il suo involucro sono inscindibili, ed io voglio entrambi. Ho rivisto in te frammenti mai compresi del mio essere e, se volgo di nuovo lo sguardo alla massa informe che ti compone, lo specchio è rimasto integro. Di rado s’incontra qualcosa di apprezzabile, da troppo aspettavo che mi si fermasse il fiato. Per quanto strano e bizzarro, cupo animale fatto di nervi, energia e sospiri, tu m’affascini come il nero fondo di un pozzo. Sto aspettando di sentir risuonare la moneta lanciata nelle sue acque torbide. La produttività del tuo animo è un bene prezioso e ricco di gloria, spremi gli organi e seziona le cellule, trasudi arte e mi spingi all’illuminazione!

Forse ormai banale scrivere di te,
eppure sei una riserva inestinguibile
di suoni, le mie mani danzano
ascoltandone i ritmici sussulti.
Tutti i nervi
che rendono agili queste dita, fili coriacei
e cianotici che si diramano in più punti
del cervello, attingendone nutrimento;
succhi e linfe disomogenei,
dolci, amare, alcuni gettati come scarto giù
per le grate, altre custodite in ampolle di
vetro soffiato. Entrambi allo stesso stato,
liquidi, anche se alcune dense e
lente nello scorrere. Defluiscono
dalle radici al fusto
e questo bel fogliame di occhi, che si
ravviva vedendo il sole,
ingiallisce solo in carenza di ossigeno…

**Canto di ossa, di bolge roventi,
canto dannati timori coscienti.
Riverbera il fuoco stagliato tra rocce
e il caldo raggrinzisce la pelle.
Sudore come gocce
che esternano in pianto il corpo ribelle.
Vuoi ardere ma esso risponde:
“le radici restan se bruci le fronde…”**

20/11/2007 
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